c. Un ritratto a parole

RITRATTO DI ARTISTA

Quando mi dissero che si trovava nel bosco sotto casa m’avviai ad incontrarlo convinto di sorprenderlo davanti al cavalletto, intento a dipingere en plein air. Si trovava invece ad una dozzina di metri da terra, su un enorme albero, impegnato a calare cautamente con delle funi, uno ad uno, i rami che tagliava per una drastica potatura rivitalizzante. Jeans e camicia a scacchi, la corporatura massiccia, un pezzo di toscano spento tra le labbra, la barba brizzolata dall’impostazione spontanea, non pareva rispondere appieno all’immagine che l’elegante raffinatezza dei suoi dipinti avrebbe lasciato supporre. L’amore per la natura non è per lui un semplice tema pittorico, un pretesto, una fonte d’ispirazione: è talmente radicato ed onnipervasivo da portarlo, malgrado impegni ed acciacchi, a recuperare con le sue mani un bosco assai trascurato, trasformandolo in breve in uno splendido parco. Del resto, anni fa aveva la poco igienica abitudine di attendere l’alba in barca, nelle lanche tra il Ticino ed il Po, per ammirare il graduale trionfo della luce sulle brume mattutine autunnali della “Bassa”. Il pretesto era la pesca, ma il vero scopo era quello di vivere i lenti sviluppi di un’intensa emozione, riconducibile ad una sorta di religiosità primordiale. Sentirsi parte vivente di un “Tutto” che non ha nome ma il cui pulsare si può avvertire tutt’attorno, così come all’interno di sé.  

Ne nascevano poi dei ritratti di luoghi talmente sentiti da turbare chi in seguito li osservava, sorpreso di scoprire per la prima volta nella sua pienezza quanto aveva sempre avuto davanti agli occhi, ma non aveva mai guardato veramente.

In seguito Giuseppe Senna ha preferito dedicarsi a ritratti di oggetti, che presentano la medesima struggente intensità, che va ben oltre la pur straordinaria minuzia “all’antica”.

Forse la rivelazione più eloquente della sua personalità artistica, della sua sensibilità profonda ed acuta insieme, si ha ascoltandolo eseguire su una chitarra da concerto antichi brani composti o trascritti per liuto. Vi si ritrova, nella delicatezza di tocco, il colore dei suoi dipinti, il gusto delle sfumature quasi impercettibili, l’intreccio delle velature in trasparenza, che diventano morbidezza tonale, palpitante, come da nessun impasto può derivare.

“Siano o non siano le cose soltanto apparenza, allora sono apparenza anch’io e quindi esse sono sempre miei simili. Questo è ciò che me le rende così care e rispettabili: sono miei simili. Per questo posso amarle.” Molti riconosceranno le parole del Siddharta di Hermann Hesse. “A me importa solo di poter considerare il mondo, e me e tutti gli esseri, con amore, ammirazione e rispetto.”

Bene, sarà un’opinione personale forse stravagante, ma mi pare che questa sia la migliore chiave d’accesso ad una pittura tanto inconsueta, più idonea d’ogni dissertazione stilistica puntuale e pedante su fiamminghi e leonardeschi, o iconologica, volta a cogliere sottili simbolismi in composizioni all’apparenza tanto semplici ma dall’impatto tanto profondo; o tecnica, sulla sapienza compositiva, sulla luminosità soffusa trasfigurante, sul raffinato equilibrio cromatico, spingendosi magari fino all’analisi delle materie pittoriche, che ovviamente quest’insolito artista prepara da sé, come s’usava oltre mezzo millennio fa, e seguendo le ricette d’allora.

 

ANTONIO BEVILACQUA

(Testo di presentazione per la personale del novembre 2000 presso la Galleria d'Arte "Sant'Isaia" di Bologna)

 

 

COMMIATO

In una recente presentazione per una mostra personale di Giuseppe veniva citata qualche riga dal Siddharta di Hermann Hesse. Si vorrebbe ora attingere alla medesima fonte per ricordarne poche altre dello stesso passo: “Ed eccoti ora una dottrina della quale riderai: l’amore, o Govinda, mi sembra di tutte la cosa principale”. Ed ancora: “Anche in lui, nel tuo grande maestro, mi sono più care le cose che le parole, la sua vita e i suoi fatti più che i suoi discorsi: sono più importanti gli atti della sua mano che le sue opinioni. Non nella parola, non nel pensiero, vedo la sua grandezza, ma nella vita, nell’azione”.

La vita intera ed ogni azione di Giuseppe hanno sempre risposto di fatto a questa impostazione: l’Amore ne è stato costante perno e motore. Amore per il prossimo, per la natura, per il bello, per le piccole cose che sostanziano la vita comune della gente comune. Non si dà coerenza maggiore che nell’unitarietà: è stata un tutt’uno, per lui, l’oblatività, l’abituale generoso dono di sé, con la partecipazione empatica interpersonale e contemplativa,  il sentirsi parte di un Tutto che accoglie in un unico grande organismo, vivente e pulsante, persone e cose, tempo e spazio. Anche l’umiltà procede di pari passo, naturalmente: nella vita quotidiana e nell’arte. Partendo da questa visione non si ha un approccio eroico alla dimensione creativa, non si ha necessità d’inseguire il sublime, attraverso tematiche altisonanti, di grandi dignità e prestigio, da cui derivano spesso rutilanti dipinti d’effetto che appagano l’occhio ma non sfiorano il cuore perché privi di anima. Al contrario, una lieve patina di muffa quasi impercettibile sul fondo di un cesto, una cassetta fuori squadra perché deformata dal tempo e dall’uso, antiquati accessori di cucina o da pesca ritrovati dopo decenni d’oblio, frutti comuni o fiori modesti, così come i filari d’alberi lungo piccoli corsi d’acqua, le risaie controluce, la nebbia nelle campagne lombarde o che sorge all’alba come un sospiro dall’acqua di una lanca, tutto ciò, riproposto nei dipinti di Giuseppe, inspiegabilmente muove corde nascoste nelle profondità del nostro animo, che ne rimane turbato. A toccarci non è solo la perfezione esecutiva, o la bellezza struggente delle immagini, o la loro persuasività mimetica: è qualcosa di sfuggente che le accompagna e le sovrasta, e risveglia in noi echi profondi, in una dimensione mistica aconfessionale, universale, semplicemente umana.

“Un pittore può dire ciò che vuole con i fiori”, asseriva Eduard Manet, artista sensibile e colto, attivo sul fronte di una grande rivoluzione artistica ma pure ben consapevole dei valori trasmessi dai maestri del passato. Le vibranti nature morte dell’ultima fase della sua produzione sono colme di forza, espressiva e comunicativa. E cosa ci incanta nelle composizioni di Giorgio Morandi, più metafisiche che iperrealiste anche nella loro oggettività più distaccata? Il fatto è che certi dipinti, pur figurativi, non presentano apparenze, sembianze, involucri: oltre ad esprimere sentimenti attingono a realtà ampie e profonde, inesprimibili e invisibili, ma trasmissibili per cenni, echi, assonanze, allusioni, che evocano l’infinito, ancor più che la natura naturans, producente da sé la propria perfezione.

Tutta la pittura di Giuseppe, dopo le fasi giovanili di ricerche e sperimentazioni, è di questa schiatta, e di qualità elevatissima. Resta il rammarico per una produzione quantitativamente piuttosto limitata: per la laboriosità delle tecniche impiegate e per il vizio della perfezione, ma anche per la molteplicità d’operati e d’interessi eterogenei che hanno colmato una vita intensa, di straordinaria ricchezza.

 

PIER LUIGI SENNA

(p.l.senna@alice.it)

(Da "Archivio", Mantova, novembre 2009)