h. Visita in studio, di Tullia Rizzotti

VISITA IN STUDIO

 

 

Lo studio di un artista è terra privilegiata ricca di mistero. Ci si entra in punta di piedi come in un sacrario, pieni di rispetto ma anche curiosi di scoprire il segreto dell’ispirazione.

Il caos di colori, pennelli, tele abbozzate o ancora vergini, intriso dall’odore gradevole e pungente dei solventi, occupa uno spazio fisico e al tempo stesso radicato in un’altra dimensione: diventa atmosfera protetta dalle stonature di un mondo sempre più materialista e cieco, culla ovattata intessuta, emozione dopo emozione, a custodire la scintilla della creatività.

Che altro sono gli artisti se non cacciatori di emozioni da restituire a chi non le sa cogliere?

 

Il giorno in cui Giuseppe aprì per me la porta del suo studio mi guardai attorno, a cercare l’aspetto nascosto del cacciatore: l’impulso che spinge a partire, infatti, e le tracce inseguite sono un segreto unico per ogni artista.

L’intensità di quei momenti riporta al presente i ricordi, e li rende vivi, come se tutto accadesse ora: rivivo tutto come attuale, attimo dopo attimo.

Il primo suggerimento viene dal viso stesso di Giuseppe. L’espressione bonaria di chi non si prende troppo sul serio, soprattutto quando è validissimo, già rivela la limpida scelta della semplicità. Non stupisce allora se la semplicità conduce verso soggetti umili e sobri come fonte di ispirazione per far scattare la scintilla della creatività. Sono i “ferri del mestiere”, come li definisce Giuseppe, e fanno capolino sparsi per lo studio: una grossa pigna, conchiglie arabescate, un cestino di melagrane, mazzetti di rose ormai secche accanto a un fascio di ortensie azzurre. In alto, sui ripiani di fianco alla porta, varie cassette di legno sono colme di altri “reperti”.

Le scelte svelano il dono di Giuseppe: sapersi ancora stupire come un bambino, accogliere con gioia, come li vedesse per la prima volta, la rugosità di una zucca, il languore di un petalo appena appassito, la lieve tristezza di un frutto raggrinzito. Il segreto è saper cogliere la vita anche nella morte apparente, la bellezza nei segni del decadimento, quasi a gridare che non c’è nulla di brutto nella vita.

Non ho mai visto nature “morte” più vive di quelle dipinte da Giuseppe.

Oltre che ammirazione incutono rispetto, perché sono quadri che non si improvvisano, ma richiedono un lungo tempo di esecuzione, oltre a un’immensa abilità dissimulata.

Il pennello “ricama” con dettaglio stupefacente e intesse un arazzo di tocchi minuti, mette in risalto aspetti nascosti e trasfigura, come un raggio di sole quando illumina un oggetto e ne trae sfumature e trasparenze prima impensabili. L’opulenza esuberante delle peonie si assottiglia allora in un’eleganza spirituale, i frutti di alchechengi sembrano irradiare luce dall’interno.

I colori sono discreti, mai “strillati”, ricavati da pigmenti base e preparati di persona secondo antiche ricette, come facevano i pittori di un passato glorioso.

 

Alcune tele sono un canto di poesia contadina. Raccontano elementi della vita rurale quotidiana e sono tratti dalle radici stesse di Giuseppe. Una visita all’amata casa di Villanterio lo rivela.

Quella casa è la giusta cornice per il quadro delle pannocchie, rese con una levità tale da sembrare librate in una dimensione di sogno, o forse emergenti da un passato arcano, dalle radici stesse della civiltà.

 

Accanto alle nature “vive”, nello studio sono sparsi quadri di paesaggi, restituiti con limpida  semplicità. Di nuovo nessun soggetto roboante, ma scorci di umili lanche di fiume e di risaie, cespugli appena infiorati dalla primavera. La pennellata si fa solo più veloce, meno cesellata, per catturare con rapidità la mutevolezza delle luci e di un’atmosfera, così fugaci in natura. In comune c’è una dimensione di pace che irradia dal quadro e non nasce dalla scelta dei temi o dalla tecnica ma dalla personalità stessa di Giuseppe, come dono dell’armonia del suo cuore.

Sono quadri che si accolgono volentieri in casa, quelli di Giuseppe, perché diffondono serenità.

Anche la mia infanzia è in parte incorniciata da un mondo di risaie, nella “bassa” novarese. Mi sono familiari la fusione di cieli e acque in una malinconia senza orizzonte, il silenzio delle nebbie, il palpitare delle prime gemme dorate alla sommità dei filari dei pioppi di confine.

Così la comunione di umide radici si trasforma in un sereno sorriso di complice intesa con Giuseppe. Le parole diventano superflue e c’è spazio solo per i ricordi condivisi del tonfo lieve di una rana che si tuffa, delle brine tese come pizzi evanescenti, del soffio di vento pronto a squarciare il velo delle brume per svelare il miraggio delle lontane montagne innevate.

Giuseppe mi racconta dell’abitudine di alzarsi molto prima dell’alba e raggiungere il fiume in tempo per fissare nell’anima l’emozione del levar del sole tra le brume e trasferirla in seguito sulla tela. Resto incantata dall’essenzialità dei colori che hanno catturato quell’alba diversa da tutte le altre. Come ogni dono della natura quell’alba è unica, irripetibile.

Nei quadri che mi circondano ritrovo un senso di armonia col creato in tutti i suoi aspetti che ho incontrato solo nella sensibilità degli indios e degli indiani d’America, espressa in modo struggente nel discorso passato alla storia del grande capo Seattle: Ogni ago lucente di pino, ogni riva sabbiosa, ogni lembo di bruma dei boschi ombrosi, ogni radura ed ogni ronzio di insetti è sacro nel ricordo e nell’esperienza del mio popolo. La linfa che scorre nel cavo degli alberi reca con sé le memorie dell'uomo rosso (...)”. Seattle lamentava che “non c’è un posto tranquillo nelle città dell’uomo bianco. Non esiste in esse un luogo ove sia dato percepire lo schiudersi delle gemme a primavera, o ascoltare il fruscio delle ali di un insetto (...). Solo un assordante frastuono sembra giungere alle orecchie e ferirne i timpani. E che gusto c’è a vivere se l’uomo non può ascoltare il grido solitario del caprimulgo o il chiacchierio delle rane attorno ad uno stagno?”.

Giuseppe si è sottratto a tutto questo, come ogni spirito libero. I suoi quadri sono finestre aperte al respiro libero della campagna.  La vita vera, e non quella artificiale, irrompe attraverso le tele con il suo invito silenzioso: “Fermati. Guarda, ricominciando a vedere, la natura che ti circonda; ritrova la sacralità della terra che ti ha nutrito per generazioni; riconquista la consapevolezza del presente, frutto del passato, seme del futuro … e ritroverai la gioia dello stupore”.

 

La vita di Giuseppe ha dipinto l’ultimo quadro, aperto sullo stupore dell’Infinito.

Giuseppe ora se n’è andato da noi ma sono sicura che lassù, sopra le nubi, sta dipingendo quadri molto più grandi, strizzando l’occhio al Padreterno e dandogli una mano a spargere sulla terra albe incantate sempre diverse.

Per chi le sa vedere.

Grazie, Giuseppe.

 

 

                                               TULLIA G. RIZZOTTI

 

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L'artista in studio

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Ultimi tocchi

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Al lavoro su "Peonie in posa"

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Un angolo dello studio

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Un altro scorcio

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Un particolare del piano di lavoro

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Particolare ingrandito da "Fiori di melo"

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Sul cavalletto "Il secchiello smaltato"

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Un particolare del dipinto precedente

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Un altro particolare

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Particolare da "Le mie pannocchie"

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Un ospite fisso dello studio: il gatto Bach

Foto di Tullia Rizzotti

Scansioni di Mattia Ghilotti per Colorzenith, Milano