i. Un approfondimento biografico

Un approfondimento biografico

 

Giuseppe Senna, pittore. Anche. In realtà Giuseppe fu un personaggio dai molti talenti, che in gran parte seppe coltivare. Partiamo proprio da quest’ultimo verbo: il suo amore per la natura, che ispira tanta parte della sua produzione pittorica, non fu un fatto puramente concettuale, o estetico. Egli amò dedicarsi concretamente a semine e trapianti, potature e innesti, margotte e propaggini, e alla reimpostazione di parchi e giardini. Per tutta la vita volle occuparsi direttamente dell’orto, del giardino e del parco annessi alla casa che fu degli antenati paterni, a Villanterio. E’ un paese “della Bassa” in provincia di Pavia, sul confine orientale, a pochi chilometri da Sant’Angelo Lodigiano, un tempo in provincia di Milano, oggi di Lodi; è un insediamento di pianura, nato lungo le due sponde del Lambro, collegate da un ponte a centro paese, dove sorgono una villa del primo Settecento circondata da un ampio parco fitto di querce plurisecolari, e un castello visconteo, o almeno quanto ne rimane dopo una drastica ristrutturazione ottocentesca. A un’estremità dell’abitato si trova un nucleo denominato tuttora Commenda:  vi sorgeva una Commenda dei Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni. Ne rimane solo la chiesa che, per quanto rimaneggiata, è riconducibile alle prime decadi del dodicesimo secolo. E’ un paese circondato da prati, campi di mais e risaie. Compare qua e là qualche macchia di alberi e c’è gran ricchezza di acque irrigue. Una roggia, la Colombana, risale al Trecento. Voluta da Bianca di Savoia, consorte di Galeazzo II Visconti, incanala acque presso Buccinasco per distribuirne e raccoglierne lungo il suo percorso, fino a confluire nel Lambro presso San Colombano, donde il nome. Per quanto soggetta a cali stagionali, non si prosciuga mai completamente, il che favorisce una grande varietà di vegetazione, comprese, nei fossetti che ne diramano, tife e ninfee. In quella località la nostra famiglia si rifugiò tra il 1942 e il 1947. Non che lì la guerra non fosse arrivata, ma perlomeno non c’era l’assillo dei bombardamenti che affliggevano quotidianamente Milano. Notiziola che può far sorridere, nostra madre formulò un voto alla Madonna, alla quale, se fossimo tutti usciti indenni dalla guerra, avrebbe dedicato un figlio. Nacque così Giuseppe, il 17 marzo 1946, proprio in quella casa, alla quale rimase affezionato per tutta la vita.

In un rustico annesso ricavò un laboratorio ove coltivare altre sue passioni, in primo luogo il restauro di cornici e mobili antichi, e la realizzazione di elementi d’arredo di stile semirustico in legno massello antico. Non si trattava di bricolage: aveva frequentato botteghe di antiquari e restauratori che, colpiti dal suo entusiasmo e dalla sua limpida schiettezza, gli concessero la loro amicizia rendendolo partecipe di molti segreti professionali. Non è il caso di elencare tutti i suoi interessi: diciamo solo che fu un tipico esempio di versatile homo faber, aggiungendo che negli ultimi anni di vita dedicò gran parte del suo tempo ad attività di volontariato, con il 118 al primo posto.

C’entra tutto questo con la pittura?  Sì, se non altro perché il tempo destinato a dipingere ne risultava assai eroso. D’altro canto, nonostante l’elevato livello qualitativo della sua produzione artistica, e l’apprezzamento e i riconoscimenti che non sono mancati, egli non volle mai che la pittura diventasse per lui un mestiere, preferendo restare libero di dipingere quel che voleva, quando voleva, come voleva, e impiegando tutto il tempo che ci voleva, cosa che un mercante non avrebbe mai accettato. La libertà è un bene preziosissimo, ma è anche un lusso che non molti possono permettersi. Giuseppe se lo concesse, ovviamente pagando un prezzo, in termini di una minore notorietà, e di un impegno lavorativo che di concorso in concorso lo portò a divenire un apprezzato funzionario alla direzione sanitaria di uno dei principali ospedali milanesi.

Un’altra rivelazione spiazzante può essere quella che il suo primo amore in campo artistico non fu la pittura, ma la musica. E’ una storia che pur brevemente va riferita per intero, perché l’epilogo da solo suonerebbe inverosimile. Verso i tredici anni espresse il desiderio di avere una chitarra. Gli fu promessa per la fine dell’anno scolastico. Avutala, si fiondò da un maestro di musica, evidentemente individuato e contattato in precedenza, persona modesta ma valente didatta e polistrumentista. Questi, constatato quanto il ragazzo fosse motivato e valutandone le mani, gli propose una formazione da chitarra classica: limitarsi alla chitarra d’accompagnamento o a un’infarinatura sufficiente per entrare a far parte di un complessino sarebbe stato uno spreco. Il corso fu intensivo, e alle ore di lezione Giuseppe aggiunse parecchie ore al giorno, ogni giorno, di esercitazioni. A fine estate il maestro gli disse che non aveva più niente da insegnargli. Avrebbe dovuto continuare a esercitarsi da solo, procurarsi nuovi spartiti e ampliare il proprio repertorio: “Troverai poi la tua strada”, concluse. Così fu: Giuseppe iniziò con la musica popolare spagnola e con la musica “colta” da essa derivata, magari ispirata alla chitarra, ma composta per pianoforte o orchestra, e trascritta per chitarra, in gran parte (ma non solo) da Segovia: autori come Albeniz, Granados, Tàrrega, Turina… Scoprì poi Sor e Paganini, Robert de Visée e Luys Milan, la musica barocca e quella rinascimentale, per approdare infine a Bach. Era un repertorio assai vasto, che eseguiva con grande perizia, ma ancor più con una sensibilità e una ricchezza di sfumature del tutto inconsuete.

Passarono quattro anni, quando si verificò uno di quegli episodi che, apparentemente fortuiti e marginali, sembrano un intervento dall’alto, segnando una svolta nel destino individuale. Un amico gli chiese di accompagnarlo ad acquistare una chitarra. Si recarono da Ricordi in Via Montenapoleone, a quel tempo particolarmente ben fornito di strumenti. Giuseppe le provò coscienziosamente tutte, individuando quella che gli pareva migliore. Eseguì quindi un brano idoneo alla verifica finale. Parecchie persone si fecero attorno per ascoltare. Lo applaudirono e gli chiesero di suonare dell’altro. Giuseppe non si fece pregare. Gli ascoltatori aumentarono, e l’apprezzamento anche. Alla fine uno dei presenti, qualificatosi come il direttore del negozio, gli disse che avrebbe voluto segnalarlo come insegnante agli acquirenti di chitarre, in costante aumento, che spesso chiedevano l’indicazione di qualcuno in grado d’istruirli. Giuseppe si stupì e si schermì, ma l’interlocutore si mostrò ben convinto e determinato: Giuseppe era bravissimo, fresco di formazione, e certo non avrebbe indugiato più del necessario in barbosi solfeggi. Tanto disse che infine lo convinse. Per quanto scettico, Giuseppe si trovò in poco tempo una schiera di allievi (e soprattutto allieve), in netta prevalenza appartenenti alla cosiddetta “Milano - bene”. Presto gli giunsero richieste di tenere concerti in case private, poi presso associazioni culturali, anche fuori città. Un regista televisivo della RAI gli commissionò la colonna sonora per un documentario sulle maioliche rinascimentali: Giuseppe v’inserì anche un paio di brani di sua composizione. Infine un anziano pianista toscano gli comunicò che aveva parlato di lui con un suo amico, che gli offriva l’opportunità di seguire un corso di perfezionamento con Segovia, all’Accademia Chigiana. Giuseppe si sentì mancare. Per lui Segovia era un mito vivente, e si sentiva inadeguato. C’era poi un ostacolo oggettivo: il corso era concomitante con gli esami di maturità che avrebbe dovuto sostenere. Propose di riparlarne di lì a un anno. Gli fu replicato: “Capisco le tue esitazioni e la tua scelta, ma guarda che, data l’età sia mia che del Conte Chigi, non è affatto detto che ci ritrovi, tra un anno.” Purtroppo il timore espresso si rivelò una profezia: nel volgere di pochi mesi se ne andarono entrambi. Giuseppe accolse l’accaduto come un segno del destino, e considerò che aveva davanti a sé anche il servizio militare obbligatorio, che lo avrebbe fatto “uscire dal giro”. L’attività di concertista era aleatoria e precaria; inoltre si stava appassionando sempre più alla pittura, che avrebbe potuto coltivare in seguito, anche in solitudine. Il risultato fu che traspose in pittura tutta la sua sensibilità musicale, acuita da anni di pratica intensa, e la sua attenzione a sfumature espressive anche minime e al giusto valore di melodia, armonia e contrappunto, presenti, seppure in altre forme, anche in campo visivo.

Quando si avvicinò la data di partenza per la “naia” una sua allieva, una cantante intellettuale italo - francese, gli segnalò che avrebbe voluto poter fruire di periodiche “messe a punto”, per cui sperava che egli  non si allontanasse molto da Milano. E suggerì la soluzione: presentare domanda come carabiniere ausiliario, frequentando il corso con impegno, in modo da risultare tra i primi nella graduatoria finale ed avere così la possibilità di scegliere la destinazione. Non gli ci volle molto per collocarsi nel primo decimo, a fine corso; solo che anziché chiedere di essere destinato a un reggimento di Milano, optò per un ruolo operativo, di pronto intervento. Fu destinato alla Compagnia di Vigevano (che rientra nella Legione di Milano), all’epoca comandata dal Capitano Franco Caldari, originario di Assisi, ora Generale di Corpo d’Armata nel Ruolo d’Onore dell’Arma, del quale seppe in breve conquistare la stima e che, intuendo le sue doti, lo incoraggiò e spronò a seguitare con impegno a dipingere, nelle ore libere dal servizio, cosa che al reggimento non sarebbe stata possibile. Giuseppe gliene fu grato per sempre.

Una delle prime forme espressive che lo attrasse fu il dripping, soprattutto perché gli appariva una metafora della vita. “Ciascuno è artefice del proprio destino” è un detto particolarmente caro alle persone che si sono realizzate. Anch’esse tuttavia devono ammettere che non tutto dipende da noi: in fondo nessuno è in grado di decidere di nascere, dove, quando e da chi. E nascere oggi piuttosto che un secolo fa, in Italia anziché in Biafra, belli e intelligenti invece di scorfani e tonti, non dipende da noi e non è affatto privo di conseguenze. Nel dripping l’operatore (artista?) lascia cadere sulla tela disposta a terra gocce e schizzi di colore. Può scegliere i colori, il tipo di materiale, e guidarne la caduta, ma è pur sempre presente una non trascurabile componente di casualità: è un dialogo tra il singolo e il destino, o il caso, o comunque un “altro da sé”.

Dipingere lo divertiva anche: nei suoi primi lavori era presente talvolta anche una componente ludica, come in alcuni pezzi (dispersi), riconducibili a posteriori all’arte povera o alla Pop-art. Una volta prese un piumino da spolvero, ne trasse le piume di struzzo che premette nella materia pittorica, ridipingendo il tutto in modo da ricavare brillanti e divertenti vasi di fiori. Altre opere erano decisamente più seriose: inizialmente mescolando solo smalti, poi integrandoli con spatolate e pennellate a olio, puntava all’espressione diretta di sentimenti, stati d’animo, emozioni, senza la mediazione di elementi figurativi. Praticava cioè l’Espressionismo astratto. E qui è necessaria una precisazione. Un malinteso, che è in realtà una mistificazione, vuole che la dizione sia riferibile a un movimento artistico statunitense. Ovviamente si tratta di un’appropriazione indebita: molti artisti europei lo praticarono, Georges Mathieu tra i tanti. Ci sono componenti segniche e gestuali, ci sono differenziazioni stilistiche, ma esistono anche molti elementi in comune. In realtà era avvenuto che gli USA, conquistata l’egemonia in campo economico e politico, pretesero di assicurarsi anche il predominio in campo culturale e artistico. In breve New York soppiantò Parigi come centro del mercato artistico, poi strategie confluenti puntarono anche a far diventare protagonisti del mondo dell’arte artisti statunitensi, opportunamente “gonfiati”. Dopo ingenti apporti di denaro pubblico, vennero pilotate speculazioni, più che investimenti, di cosiddetti mecenati, che imposero un gruppetto di artisti connazionali al vertice delle quotazioni internazionali. In più, esasperando il concetto di art-pour-l’art, gli epigoni del maccartismo propugnarono l’idea che l’arte non debba avere dei contenuti, meno che mai sociali, civili o politici, altrimenti non si tratterebbe più di arte, ma di propaganda ideologica. Il discorso era applicabile alla retorica del Realismo socialista, ma seguendo fino in fondo quel ragionamento si dovrebbe dichiarare che i Capricci di Goya, Guernica di Picasso, i dipinti e le litografie caricaturali di Daumier, e magari la stessa arte sacra nella sua globalità, non sono arte, perché si permettono di avere “qualcosa da dire” anziché occuparsi esclusivamente di ricerche formali. Analogamente la Pop Art, successiva, che nelle versioni europee partiva da una netta denuncia del consumismo, in quella statunitense, con Warhol in testa, si limitava, nella sua aproblematicità, a una cinica celebrazione della banalità quotidiana.

Giuseppe non si pose grandi problemi di engagement. Praticò tuttavia l’Espressionismo astratto. Nel contempo, in antitesi, si sentiva attratto dal linguaggio opposto: dal naturalismo lirico, e da una pittura figurativa legata alla tradizione lombarda, che dal Chiarismo novecentesco risaliva al luminismo del Foppa e alla prospettiva aerea di Leonardo. Accanto alla produzione principale, corposamente cromatica, espressionista, cominciarono ad apparire dipinti figurativi delicatissimi, di scorci di campagna e di paesaggi aperti, avvolti nella nebbia o nelle brume mattutine. Erano dipinti ad olio, per velature, sottilissimi strati non omogenei di colore sovrapposti, trasparenti, così da creare alla fine dei sapienti grigi palpitanti, di molta suggestione. Sfumature quasi impercettibili di colore producevano effetti slontananti, di grandi profondità costruite tonalmente, piuttosto che attraverso linee di fuga.

Erano anni, quelli della prima metà dei Sessanta, straordinariamente vivi, ricchi di fermenti culturali e artistici, di ricerche in ogni direzione. Se tra i moltissimi linguaggi praticati si volesse cercare un elemento unificante, lo si potrebbe individuare nel comune interesse per la materia. Con l’Informale in primo luogo, naturalistico e non, ma anche nelle sperimentazioni più nuove. Burri lavorava con sacchi e fogli di plastica, Fontana costruiva i suoi primi Concetti spaziali inserendo nei dipinti sassolini colorati, pietruzze, frammenti di vetro, richiami a lamine di metallo, Manzoni intingeva le sue michette nel caolino, unificante monocromo di tele grinzate e di polimaterici … La materia acquistava una propria autonomia, andando oltre l’efficacia espressiva del segno e del gesto, tracce dell’energia dei colpi di spatola o di pennello assestati.

All’interno di questo discorso, un rilievo a sé spettava al filone dell’informale materico naturalista, particolarmente congeniale agli artisti lombardi, legati per tradizione a un morbido naturalismo, lirico, contemplativo, venato di una punta di dolce malinconia. Giuseppe ne fu sempre più attratto. Elementi leggibili di paesaggio emergevano da spessori magmatici, a evocare luoghi (dell’anima) e le emozioni ch’essi suscitavano.

Nelle sue sperimentazioni s’imbatté in uno smalto metallico, che presentava un paio di proprietà assai utili. Applicato a spatola a suggerire tronchi e rami, creava rilievi consistenti, che nell’asciugarsi raggrinzivano, richiamando le cortecce vegetali; steso a pennello, come fondo alle velature, rivelava proprietà catarifrangenti. Non solo: le differenti intensità e qualità di luce incidente facevano emergere questo o quello strato di pittura, con l’esito finale di dipinti cangianti, mutevoli cromaticamente secondo l’ora, la luminosità della giornata, o l’intensità dell’illuminazione artificiale. Erano quadri vivi, proteiformi.

Continuò così qualche tempo, con soddisfazione personale e ritorno di approvazioni. Poi intervenne di nuovo il destino. Giuseppe si trovò a vivere una serie di disturbi misteriosi, a cominciare da perdite d’equilibrio. In breve: quel materiale era estremamente tossico, e nocivo al sistema nervoso centrale, tanto per contatto cutaneo quanto per semplice inalazione. Si sarebbe dovuto usare, con molta cautela, solo all’aperto o in ambienti dotati di potenti aspiratori muniti di filtro. Giuseppe nel frattempo aveva sposato Lidia e, abbandonata la stanza indipendente usata per anni come atelier, ora aveva per studio un locale all’interno dell’appartamento. Dovette risolversi ad abbandonare quello smalto, e gli effetti che consentiva. Continuò ad usare il colore - materia, pur rinunciando alla luminescenza cangiante.

Di nuovo giunse un’indicazione dall’esterno. Un cugino aveva rilevato un antico colorificio in Zona Brera, nel quale un’intera parete era costituita da cassettini di legno, pieni di un’infinità di pigmenti colorati. Nel frattempo era nata Valentina, la figlia primogenita (Claudia sarebbe seguita dopo sei anni e mezzo), e per casa giravano dei graziosi vasettini di vetro che avevano contenuto omogeneizzati. Pian piano andarono riempiendosi di polveri colorate, inizialmente a scopo decorativo. Giuseppe si trovò ad ammirarne sempre più spesso e a lungo bellezza e varietà. Poi, sempre più incuriosito, volle conoscerli a fondo: ne studiò la composizione chimica e le reazioni possibili. Divennero per lui personaggi, ciascuno con propri tratti caratteriali, le proprie affinità, simpatie e incompatibilità. Riscoprì le antiche ricette per la preparazione dei colori, e le adottò.

La sua tavolozza divenne più ricca e luminosa, e fu rivisitato il concetto stesso di materia pittorica: quei colori riscoperti erano anch’essi, in sé, materie naturali, ben riconoscibili nelle loro proprietà come nelle loro realtà chimiche. L’importanza degli spessori, dei gorghi materici, veniva alquanto ridimensionata. Si posero nuovi problemi tecnici, e nacque una nuova sintassi, fatta di minuziosità, di diversi preziosismi, particolarmente idonea alla tematica delle nature morte.

L’antico amore per la natura trovava ora modo di manifestarsi appieno, in un’ottica ravvicinata, lenticolare, dispiegando un cantico che non aveva necessità di celebrare il sublime né il pittoresco, ma che poteva esaltare la bellezza quotidiana, delle cose piccole e umili, sovente neglette, attraverso un atteggiamento ben espresso da una celebre quartina di William Blake, pittore e poeta, e soprattutto mistico:

                   “Scopri l’Universo in un granello di sabbia

               e il cielo in un fiore selvatico,

                   racchiudi l’infinito nel palmo della mano

               e l’eterno nell’ora che vivi”.

Ecco, in fondo è questo il segreto della pittura di Giuseppe: uno sguardo limpido, attento e partecipe, colmo di amore e di rispetto, in grado di stupirsi sempre, di cogliere il bello ovunque, e di segnalarlo ad altri. Coglierlo, nelle sue tele come direttamente attorno a noi, sta solo alla nostra capacità d’ascolto, pur nella rumorosa dispersività che ci circonda.

 

PIER LUIGI SENNA

                                                                            

 

(Rielaborazione dell’intervento del 10 ottobre 2011 nell’Aula Magna del Museo di Storia Naturale di Milano, in margine alla conferenza fotodocumentaria di Tullia Rizzotti per il Centro Botanico Milanese, dal titolo: “La natura e l’occhio del pittore: il segreto della bellezza di Giuseppe Senna”).